Da tempo ormai la nostra civiltà si è abituata a indagare quello che viene definito come pensiero mitico, a precisarne le modalità e la forma. Ma altrettanto non si può dire sia avvenuto per quanto riguarda il pensiero rituale. Anzi, per alcuni "rito e pensiero sono di per sé termini antinomoci". Secondo tale impostazione, infatti, pensare significherebbe innanzitutto "sbarazzarsi di ciò che è stereotipato, ripetitivo, determinato in precedenza, caratteri che appartengono per eccellenza al rito". Ora, si dà il caso che tutto questo venga radicalmente messo in dubbio dalla testimonianza di una grande civiltà: l'India. Nell'India antica, quella dei Veda e dei Brahmana (i Trattati sui riti, quindi essenzialmente sui sacrifici), apparvero alcuni pensatori, i quali - in epoca anteriore ai primi sapienti greci - si interrogarono su ciò che è con stupefacente capacità speculativa. E la forma che scelsero fu appunto quella del pensare attraverso il rito: attraverso inesauribili commenti ai particolari anche minimi delle cerimonie. Chiamati usualmente "ritualisti", essi erano innanzitutto dei grandi metafisici - e il nome di Yajnavalkya o di Sandilya andrebbe avvicinato a quello di Eraclito o di Parmenide. Penetrare nelle vaste foreste delle loro meditazioni (si ricordi che per l'India antica la foresta è anche il luogo della dottrina segreta, quella esposta negli Aranyaka, "testi della foresta") è una delle avventure più esaltanti a cui possa rivolgersi oggi il pensiero. Charles Malamoud ha dedicato a questa impresa decenni di ricerche, proseguendo sulla traccia della grande tradizione indologica francese, da Sylvain Lévi a Louis Renou, a Paul Mus, tradizione di cui egli è attualmente il massimo rappresentante. Leggendo Malamoud, qualsiasi lettore è guidato a scoprire, dietro ogni dettaglio rituale, prospettive che danno una lieve vertigine.
Anonimo -