Nella prospettiva di Jung i dati religiosi vanno considerati come la manifestazione storica infinitamente varia di un autonomo livello di realtà; autonomo in quanto, pur rivelandosi attraverso la vita, esso non è il frutto della sublimazione di una realtà biologica, come Freud pretendeva, ma è parte costitutiva e irriducibile della condizione umana. I dati religiosi vanno perciò compresi come 'la formulazione psicologica di esperienze interiori che hanno sempre, all'origine, i caratteri della rivelazione individuale', anche se subiscono poi il travaglio secolare dei tentativi di rielaborazione culturale tendenti a renderle assimilabili ai più; e che possono sempre riemergere nei materiali onirici o visionari individuali, in quanto essi hanno radice nel fondo archetipo comune. "Psicologia e religione" (1938/1940), il "Saggio d'interpretazione psicologica dei dogma della trinità" (1942/1948). "Il simbolo della trasformazione nella massa" (1942/1954) e gli altri scritti sulla religione in Occidente sono costruiti in questa prospettiva, che l'immensa dottrina di Jung sostanzia e conferma. A questi saggi seguono quelli da Jung dedicati alla religione in Oriente: i commenti psicologici al "Libro tibetano della grande liberazione" (1954) e al "Libro tibetano dei morti" (1935/1953), la Prefazione alla "Introduzione al buddhismo zen" di D.T. Suzuki (1939), "Psicologia della meditazione orientale" (1943), e così via. Essi mostrano magistralmente come i diversi metodi orientali d'introversione favoriscano il suddetto carattere individuale dell'esperienza religiosa; sottolineando tuttavia nel contempo l'estraneità di Jung, terapeuta impregnato del mito cristico della redenzione, alle tentazioni di fuga dal mondo presenti in così larghi strati della religiosità orientale.
Anonimo -