Ansia, fatica cronica, panico, ritiro addolorato dalla quotidianità, sentimenti di resa, impotenza, indegnità: la parola 'depressione' dice l'intero non-vissuto, il fenomeno della morte-in-vita che nelle società più medicalizzate sta assumendo le proporzioni di un'epidemia. Al punto da legittimare il sospetto che epidemici non siano i disturbi depressivi, bensì i rigidi contenitori diagnostici e terapeutici in cui vengono riversati, escludendo altri tipi praticabili di intervento. L'etnopsichiatria si muove invece in una prospettiva più larga, che all'occorrenza utilizzi 'anche' dispositivi endopsicologici e protesi neurochimiche, senza però lasciare inerte ciò che essi continuano a ignorare, ossia un senso condiviso dal singolo e dalla sua comunità di riferimento. È quanto ci insegnano i saper-fare della medicina tradizionale, a cui è affidata la messa in forma e la cura di sofferenze analoghe. Ed è quanto abbiamo smarrito nella storia della nostra stessa 'depressione', qui ripercorsa da Coppo nei suoi momenti cruciali, dalla figurazione della melanconia nella Grecia antica alla costruzione della moderna nosografia, dalla casuale scoperta dei primi farmaci antidepressivi alla loro illuminante validazione su animali - in particolare scimmie antropomorfe - e al ruolo decisivo che essi ricoprono, con episteme circolare, nella definizione psichiatrica della malattia.
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